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La Montanina di Antonio Fogazzaro

Descrizione

La Montanina di ANTONIO FOGAZZARO

di GIOVANNI MATTEO FILOSOFO

Senza la fantasia e la creatività di Antonio Fogazzaro, mai ci sarebbe stata la Montanina.
Il celebre romanziere, la chiamò così, perché, come chiarirà in “Leila”, ultimo suo romanzo, quasi interamente ambientato e scritto a Velo, “… assisa sotto un cappello di tetti acuti, col dorso alla montagna, fra selvette e prati pendenti al Posina profondo, ha l’aria di una boscaiola discesa dai dirupi della Priaforà, che riposi seduta sotto il grande carico e guardi”.
Proprio lassù, a Velo, tra il 1905 e il 1907 si era fatto costruire la “sua” villa, detta per l’appunto la “Montanina”: unica casa, non ereditata, da lui abitata, e, quindi, pienamente rispondente alle scelte del committente, in un curioso connubio architettonico di liberty-secessionismo viennese-art nouveau, bene interpretato dal progettista da lui stesso scelto, il veneziano Mario Ceradini.
È in essa, e nelle immediate adiacenze, che ambienterà le vicende di un amore che finalmente approda a felice conclusione.
Il paesaggio, favoloso ed ariostesco, è lo stesso del “Daniele Cortis”, romanzo del 1885, ma l’indagine psicologica dei protagonisti, sospesi tra l’essere e l’avere, il dovere e la passione, la sensualità e l’anima, l’ideale e il reale, le voci occulte delle cose e l’elevazione morale e religiosa, risente della recente condanna ricevuta con la messa all’Indice de “Il Santo”, l’opera in cui aveva enunciato una riforma religiosa, in senso umanistico e cristiano.
E, così, costruendo la Montanina, e scrivendo “Leila”, Fogazzaro tesse la trama di un approdo finalmente felice, come uomo, scrittore e artista, realizzando una perfetta fusione tra estetismo, letteratura e arte, in un’inestricabile unità espressiva.
L’ardore del ribelle, che vorrebbe una Chiesa non cieca e non sorda di fronte alle ingiustizie, sembra stemperarsi nella dolcezza di un paesaggio, da lui stesso voluto e migliorato, sasso accosto a sasso, fonte a fonte, albero ad albero, con un attaccamento alle cose terrene reso ancor più forte quanto più si avvicina il momento di lasciarle. Ma, nonostante le tante promesse di riconciliazione con la Chiesa cattolica, il poeta non rinnega le sue critiche verso una corte papale preda dello spirito di dominazione, di egoismo, di autoritarismo, di immobilismo e di menzogna. Affida al buon don Aurelio, curato a Lago di Velo, il compito di portare avanti la sua battaglia, nell’orazione funebre in onore di Benedetto, il “Santo”.
Ed è bello pensare che nell’ultima pagina di “Leila”, pure messo all’Indice, il romanziere abbia voluto unire insieme, nel suo cuore, la avita Valsolda con la Val d’Astico, con una chiara predilezione per quest’ultima, là dove i due giovani, Leila e Massimo, finalmente innamorati, dopo la tumulazione dei resti di Benedetto nel romito cimiterino di Oria, vanno col loro ricordo alla dolce e serena villa adagiata sul colle: “Egli le mostrò, sulla cresta della montagna in faccia, il piccolo dente inclinato a mordere il cielo poco sotto la sommità verso levante”. “Lo pensavo” - diss’ella - ma l’effetto è diverso quando la rupe (cioè il Corno Ducale-Caviojo) si vede spiccare nel cielo dentro un piccolo campo, come nel salone della Montanina”.
E’ il 1910. Il cerchio si chiude. La voce del poeta l’anno dopo si spegne per sempre. Ma restano le sue opere a parlarci di lui, dei luoghi amati, dei suoi ideali.
Lassù, nell’amata Val d’Astico, e nella prima montagna, dove ancor oggi si possono visitare ville, luoghi e sentieri fogazzariani, il poeta aveva aperto e finanziato il primo di tanti asili-famiglia per bambini orfani e abbandonati, accuditi ed educati da una maestra-mamma.
Lassù aveva trovato riposo l’eterno dissidio, umano e non solo letterario, tra il dolore e l’estasi, il sentire e il sognare, la teoria filosofica del reale e quella del trascendente, entrambe spesso in antitesi, ma talvolta anche in simbiosi, nell’animo del poeta, ma anche nello scenario del piccolo, grande mondo valligiano.
E, non è un caso se fu un sacerdote, il nostro don Francesco Galloni, angelo buono sul Pasubio e in Oriente, a riproporre le fattezze della Montanina, dopo le distruzioni della Grande Guerra. Eroico cappellano militare, uomo sensibile e prete veramente profetico, in cui la dolcezza, la purezza d’animo e la nobiltà degli ideali e dei sentimenti erano strumenti che abbattevano barriere e proibizioni, nella convinzione di operare comunque e sempre per il bene, in una solidarietà senza confini, mons. Galloni aveva un ardore che avvinceva chi lo avvicinava e che certamente avrebbe conquistato lo stesso Fogazzaro, cui piacevano i preti che non esitavano a lottare in difesa dei deboli.
E, con lui, la Montanina risorge. Non ascoltando le voci dei romantici che avrebbero preferito lasciar crescere l’edera sulle rovine, il sacerdote di Cristo la riedifica, in un ambiente incantevole. Le fonti Modesta e Riderella tornano a scorrere tra i sassi e il muschio, lambendo la bianca villa e la chiesetta bizzarra di Santa Maria; i faggi piangenti, che il poeta mise a dimora, sono cresciuti, stormendo nel vento.
“Le rose di Leila sono vendicate!”, scrisse il buon don Francesco alla fine dei lavori, incidendo con una baionetta una pietra del colle.
È una poesia che affascina.
Il fatto è che la Montanina vivrà per sempre, perché il Fogazzaro, inserendola come scenario e “set” di “Leila”, con la sua scrittura l’ha innalzata a mito, come sempre fanno i veri poeti quando, con le loro liriche, rendono immortali le cose di questo mondo, antico e moderno.